L’impatto delle nuove tecnologie sull’occupazione: fine o trasformazione del lavoro?*


Sono trascorsi trent’anni dalla pubblicazione de “La fine del lavoro”, il libro nel quale l’economista americano Jeremy Rifkin analizzava il processo di trasformazione tecnologica che negli anni novanta del secolo scorso stava investendo il settore dei servizi, principalmente attraverso la diffusione capillare dell’utilizzo degli strumenti informatici i quali – secondo l’analisi di Rifkin – avrebbero prodotto una drastica riduzione dei posti di lavoro nel terzo settore. Rifkin faceva un’analogia con le fasi di trasformazione connesse alla diffusione delle macchine nell’agricoltura e nell’industria manifatturiera, realizzatesi nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, le quali avevano generato momenti di espulsione di consistenti quantità di lavoratori, alle quali erano tuttavia sempre seguite fasi di ricollocazione di gran parte degli stessi lavoratori in nuovi settori emergenti.
L’analisi di Rifkin partiva dall’assunzione che – a differenza di quanto avvenuto in passato, attraverso la diffusione dell’utilizzo delle macchine nell’agricoltura e nell’industria – l’informatizzazione del settore dei servizi e il progressivo affermarsi di sistemi informatici sempre più “intelligenti” avrebbe causato una progressiva espulsione di lavoratori che il mercato di lavoro non sarebbe stato in grado di ricollocare in altri contesti produttivi.
La risposta a quello che considerava un inesorabile «declino della forza lavoro globale» doveva essere, nell’opinione di Rifkin, una ridefinizione del contratto sociale alla base delle economia industrializzate, in particolare attraverso interventi di impulso al terzo settore, una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e il rafforzamento del sistema di welfare.
Tali proposte sono ancora presenti nel dibattito pubblico, e ritornano ciclicamente nei periodi di crisi economica. In particolare, la tematica della riduzione dell’orario di lavoro ha un ruolo centrale nella tesi di Rifkin, il quale richiama, a tale proposito, l’esperienza degli USA negli anni trenta. Una ricerca condotta dall’Industrial Conference Board su un campione di 1718 top manager mise in luce il fatto che, nel 1932, più della metà delle imprese industriali americane aveva ridotto il numero delle ore lavorate, in modo da mantenere i livelli occupazionali e promuovere i consumi.
L’epilogo della vicenda si raggiunse però con la proposta di legge del senatore Black e il conseguente intervento del presidente Roosevelt. Il 31 dicembre 1932, il senatore dell’Alabama Hugo L. Black presentò al Senato degli Stati Uniti una proposta di legge per rendere obbligatoria la settimana lavorativa di trenta ore: la proposta fu approvata dal Senato e in commissione alla Camera dei Rappresentanti, ma fu bloccata in seguito all’intervento del presidente Roosevelt, il quale era preoccupato delle ripercussioni che tale provvedimento avrebbe causato in termini di mancata crescita economica e sulla competitività delle aziende americane nel mercato internazionale. Oggi, a quasi un secolo di distanza dagli eventi sopra descritti, le ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro generano analoghe perplessità.

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